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Minori in prima pagina - tornare da scuola con mamma per provvedimento del giudice - di paolo sceusa

16 dicembre 2010

Signori: Jurisprudentia! E se non juris, almeno prudentia!

Dunque ecco un nuovo caso di bambino che la scuola si rifiuta di far tornare a casa sua da solo, come vorrebbero i suoi genitori.

Stavolta succede a Buja, paesino carnico (siamo in Friuli), in precedenza nominato dalle cronache solo per qualche sagra folkloristica e, purtroppo, quando fu colpito dal sisma del 1976. Consueto scalpore mediatico: “La scuola elementare di Buja non permette a un bambino di Va di andare a scuola da solo. I genitori ricorrono al giudice che dà ragione alla scuola”.

Il giudice di Tolmezzo, investito dai genitori per un provvedimento di urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., rimette il ricorso al Tribunale ordinario di Trieste per via del foro erariale, essendo resistente la scuola pubblica, difesa dall’avvocatura dello Stato. L’esito lo conosce tutta Italia dai titoli dei giornali, simili a quello sopra riportato. Avverso l’ordinanza del giudice monocratico triestino, pende attualmente reclamo al collegio. E vedremo come andrà a finire.

Intanto direi che la questione giuridica, ad onta di quanto titolato dalla stampa, non attiene affatto all’“andare a scuola”, ma, se mai, al “tornare da scuola”: è infatti evidente che l’istituto scolastico può fondatamente porsi il problema della propria responsabilità da custodia dei suoi allievi solo dopo che sono entrati, ogni giorno, nella sua sfera di controllo e protezione. Tale momento è segnato dall’arrivo del bambino a scuola, dove i genitori possono tranquillamente decidere di mandarlo da solo senza chiedere permessi a nessuno (ne risponderanno solo loro, perché è dalla loro custodia che il bambino dipende, quando esce da casa). Viceversa, quando il bambino deve rincasare esce, per così dire “dalle braccia” della scuola per tornare tra quelle dei suoi genitori. Ed è qua che si scatena l’appassionante (?) tematica. Possono i genitori liberare la scuola da ogni sua responsabilità formalizzando la loro volontà di far tornare a casa da solo il loro pargolo?

Sappiamo che, fino ad un certo punto, la risposta è stata sempre: sì! (anche perché mancava… la domanda). Poi è diventata: no! Anzi, a voler fare proprio i giuristi, è diventata: nì! (cioè: dipende. Classica risposta leguleia).

Adesso mi spiego: quel certo punto fino al quale nessuno aveva ancora immaginato di frapporre ostacoli o di sindacare le decisioni genitoriali sul rientro del bimbo, ha ricompreso tutta l’infanzia mia e quella degli altri giovanotti come me, che a scuola siamo sempre andati e tornati da soli, fin dalle elementari. E magari anche in bicicletta. Peraltro nessun genitore si sognava di domandar permessi (ecco, appunto, mancava la domanda) o di rilasciare liberatorie. Né alcuna scuola di far problemi di sorta: era semplicemente una cosa normale e, pertanto, indifferente al mondo del diritto. Com’era normale che nei pomeriggi si giocasse nel cortile condominiale o per strada. Ma mica i nostri genitori erano incoscienti, né noi eravamo più svegli dei bambini di oggi.

Solo che non erano ancora accaduti certi fatti e tutti i pedofili (allora si diceva “i sporcaccioni”) vivevano rintanati nei cinema di terz’ordine. O forse quel tipo di fatti erano anche già accaduti, ma erano stati trattati alla stregua di semplici, dannate, fatalità.

Fu, come spesso avviene, un fatto purtroppo grave, accaduto nel marzo del 1980 in provincia di Bologna, a porre chiaramente il problema: un bambino delle elementari, lasciato attraversare da solo la strada in assenza dei genitori alla fermata dello scuolabus venne investito e riportò gravi lesioni. Fatti molto simili si sono poi ripetutamente posti all’attenzione della giurisprudenza (provate a scrivere “scuolabus” su una qualsiasi banca dati di giurisprudenza e troverete la strage degli innocenti). Tra l’altro, l’ennesimo caso si è purtroppo di recente ripetuto, proprio qui nella Venezia Giulia. Solo che in questo caso il bambino ha perso la vita, da cui i nervi scoperti e le antenne tese della magistratura giuliana.

Siccome ho promesso al direttore di questa rivista di non fare la solita “nota a sentenza”, non scenderò nei dettagli e nei distinguo delle sottili questioni giuridiche che operano le sentenze di merito e di legittimità che affrontarono quel caso e gli altri successivi, in sede civile e penale (pur molto interessanti, vi assicuro[1]), ma mi limiterò a ricordare ciò che diede la stura all’approccio di ipercautela ormai corrente.

Come sappiamo, in questi gravi casi, avvocati e giudici fanno tutto il possibile per ampliare sia il titolo giuridico delle possibili responsabilità civili, che il ventaglio degli obbligati solidali al risarcimento, così da poter garantire alla vittima o ai suoi parenti il massimo delle aspettative verso soggetti privati e pubblici, questi ultimi sicuramente solvibili.

Tutti ricordiamo l’avvento in giurisprudenza della responsabilità contrattuale c. d. da “contatto sociale”, nata a proposito dei danni da “malasanità” (mi si perdoni il gergo colloquial-giornalistico, ma già che ci sono…) e via via estesa proprio ai danni verificatisi in ambito scolastico, con puntate applicative (meno sorprendenti) nell’ambito della responsabilità professionale di avvocati, notai, mediatori, ecc.

Questo “contatto sociale” non è altro che una forma speciale di affidamento (nel senso di fiducia nella affidabilità di una certa struttura professionale) che costituisce una moderna declinazione del concetto di buona fede contrattuale. Orbene, la conseguenza eminente della sussunzione di tali casi nella responsabilità di tipo contrattuale (cioè da inadempimento), oltre alla elevazione dei termini di prescrizione, è senza dubbio l’inversione dell’onere della prova. Infatti nella responsabilità contrattuale, per effetto della presunzione di cui all’art. 1218 cod. civ., il danneggiato è sollevato dall’onere di provare la colpa del danneggiante, onere che, secondo il principio ordinario (art. 2697 cod. civ.) vigente in tema di responsabilità aquiliana (artt. 2043 cod. civ.), diversamente sarebbe tutto suo, con le conseguenti (a volte insormontabili) difficoltà.

Certo, anche la responsabilità extracontrattuale “dei precettori” (cioè, per farla breve, della scuola) conosce il tema dell’inversione dell’onere probatorio per effetto di presunzione di colpa (art. 2048, co. II, cod. civ.), ma la norma copre solo i casi di danni cagionati dagli allievi a terzi.

Scusate, sono scivolato senza accorgermene nel giuridichese spinto, il che potrà risultare ostico ai lettori non giuristi.

Insomma, quel che vorrei far apparire chiaro è il fatale precipitato finale di questa giurisprudenza: ogni volta che un bambino si fa male a scuola, o in ambito spazio/temporale scolastico (compreso il cortile e i tempi pre e postaccoglienza), lo Stato e l’istituzione scolastica sono presunti responsabili fino a prova contraria (piuttosto diabolica, a legger l’art. 1218 cit.) a loro carico. Il personale scolastico (insegnanti, personale ATA, dirigenti) potrà esser chiamato a rispondere del suo operato soltanto dallo Stato in una fase successiva di eventuale, separata, rivalsa (art. 61, l. n. 312/1980).

Su questo sfondo di responsabilità presunta, la Cassazione ha più volte ribadito che la scuola ha un dovere di custodia e protezione suo proprio, non derivato dai genitori, che si conclude solo quando il bambino viene rimesso nella diretta sfera di custodia di uno di loro. Dunque, sarebbero inefficaci le liberatorie che tanti genitori chiedono (a volte pretendono) di rilasciare alla direzione scolastica[2], pur di ottenere che il proprio figliuolo se ne possa tornare a casa da solo, il che magari gli risolverebbe tutti i problemi organizzativi dipendenti dal fatto di non aver modo di presentarsi personalmente a ritirare la prole al suono del campanello d’uscita.

Mi constano svariate circolari di dirigenti scolastici, emanate anche sulla scorta di pareri pro-veritate stilati dalle varie sedi distrettuali dell’avvocatura dello Stato, improntate al massimo della prudenza al fine di evitare ogni possibile addebito di responsabilità alle scuole (atteggiamento nazionale tipico: con la scusa della tutela del minore, intanto mi tutelo io da ogni possibile rischio di responsabilità). Questo ha prodotto il frequente “automatico” e apodittico diniego di qualunque richiesta di autorizzazione a lasciar tornare soli a casa gli alunni delle scuole primarie di primo grado (le elementari). E ciò perfino di fronte alle minacce di denuncia per sequestro di persona, che alcuni genitori avevano cominciato a ventilare nei confronti di insegnanti, presidi (dirigenti) e bidelli (personale ATA). Anzi mi consta che almeno in un caso ne sia stata effettivamente presentata una, peraltro risoltasi con archiviazione.

Fin qui le tinte forti della questione. Ma attenzione, la giurisprudenza è il regno dei distinguo. Infatti, a ben guardare, è la stessa Corte suprema che, laddove ha coniato i suddetti principi, ha anche introdotto dei saggi temperamenti. Solo che essi, pur chiaramente improntati al diritto e al buon senso, hanno evidentemente lasciato minor traccia.

E allora ecco che i responsabili degli istituti scolastici, a volte refrattari alla elaborazione dei principi mediata dalla realtà, perché tutti presi, soprattutto, a schivare possibili proprie responsabilità, spesso trascurano di considerare i distinguo specificati proprio dalle sentenze cui si appellano. Ad esempio: il subentrare dei genitori, nella fase di riconsegna, potrà anche essere potenziale o potrà essere indiretto attraverso la delega a terzi maggiorenni. Inoltre, valgono comunque i principi di responsabilità decrescente del personale scolastico, in funzione inversamente proporzionale all’età e al normale grado di maturazione degli alunni, in relazione alle circostanze del caso concreto.

Certo, si dirà che così si relativizzano i principi e si suggella l’incertezza del diritto. E’ ovvio che sì. Ma è un’operazione che proprio in ossequio al Diritto si deve fare: in adesione al doveroso adeguamento delle prescrizioni educative alla evoluzione e alla crescita della persona minorenne, che va progressivamente autoresponsabilizzata. E allora sarà ovvio ed evidente che nessun genitore potrà trovare secondamento nella pretesa di far tornare solo a casa il suo bambino fin dai primi anni dalla scuola materna. Una pretesa del genere, posta in termini inflessibili e indisponibili ad una soluzione alternativa, quale quella della delega a un terzo maggiorenne e compos sui, sarebbe già di per sé meritevole di sindacato sul corretto esercizio della potestà genitoriale.

Al contrario, un ragazzino delle scuole medie normodotato sarà lasciato tranquillamente libero di tornare a casa da solo (salva, se mai, una eventuale espressa disposizione contraria dei genitori), anche se deve traversare strade o prendere mezzi pubblici. Se no come farà a sviluppare la propria autonoma capacità di circolazione e movimento nella sua città?

I bambini delle elementari (ora scuole primarie di primo grado), stanno in mezzo a questi due estremi e proprio perciò richiedono il maggior discernimento (da parte degli adulti).

Dunque, ancora una volta, tutto dipenderà dal luogo e dal percorso. La soluzione cambierà a seconda che si stia parlando di Milano o di Buja… direi. E non si può ragionevolmente argomentare che “tutte le strade sono potenzialmente pericolose”, come si legge negli atti del processo cautelare triestino.

A mio avviso la soluzione corretta starà nel lasciare la primaria discrezionalità al/ai genitori tutte le volte che, l’apprezzamento del caso concreto, non faccia dubitare della loro normale coscienziosità. I genitori normalmente responsabili non possono esser anch’essi messi sotto tutela per effetto estensivo della iperprotettività che il personale scolastico riserva… a sé stesso, prima ancora che al minore.

L’autorità scolastica, insomma, non potrà legittimamente esimersi dal considerare questi benedetti elementi del caso concreto: l’età del bambino, la distanza da casa, le condizioni ambientali, quelle del traffico, le evenienze particolari e contingenti che potranno far trattenere, magari solo per quel giorno, il bambino fino all’arrivo del genitore (una frana, una manifestazione di piazza). La scuola dovrà saper operare i suoi distinguo, se vorrà dare la giusta rappresentazione del suo, esigibile, discernimento. A quel punto stia tranquilla che la “liberatoria” scritta, che si sarà certamente fatta rilasciare dai genitori, la terrà indenne da ogni responsabilità da malaugurati occorsi dannosi eventualmente subiti o agiti dal bambino, in itinere. Tanto più che un ottuso diniego, lo sappiano i responsabili scolastici, può dar luogo ad altrettanti ipotizzabili addebiti di responsabilità risarcitorie.

Sappiano però anche i genitori che, essendo assolutamente pacifica la possibilità di affidare il ritiro dei loro bambini a terzi maggiorenni, debitamente e formalmente dichiarati alla scuola, gli impuntamenti sulla questione di principio tipo “mio figlio viene a casa da solo e basta!” saranno anch’essi suscettibili di formare oggetto di sindacato sulla potestà, ove non sorretti da altrettanto discernimento.

Per concludere, credo che nella nostra postmoderna società, alimentata da smisurate ansie parentali e da paure sempre nuove e non sempre razionali, vadano incoraggiate le ragionevoli tendenze di quei (rari?) genitori che non vogliano a tutti i costi ritardare oltremisura lo “svezzamento” dei propri figli. Che se no, poi, crescono bamboccioni …

Aggiornata il 16 maggio 2013