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Ferdinando Schiavo-Farmaci sì, farmaci no: rendere medico il paziente

www.perlungavita.it

15 dicembre 2014

Intervista a Ferdinando Schiavo, neurologo-consigliere dell'Associazione Alzheimer di Udine, dell'Associazione Ricerca ed Interventi sull'invecchiamento (ARIS) di Trieste e della Associazione Italiana di Psicogeriatria Triveneta.

Partiamo da un dibattito attuale-vaccinazione sì, vaccinazione no- che chiama in causa sia la profilassi pediatrica contro le malattie che hanno ucciso o menomato milioni di bambini sia la prevenzione per le persone a rischio per virus stagionali.

Lei, da sempre impegnato con articoli e pubblicazioni per informare il cittadino e gli operatori degli eventi avversi (EA), anche a carattere neurologico (EAN), provocati da farmaci, cosa ne pensa ?

Il tema delle vaccinazioni, poi nella specifica attualità, è intrigante e realmente complesso. Nel momento in cui scrivo, il giudizio sui recenti avvenimenti, le morti di anziani forse imputabili alla vaccinazione anti-influenzale, è sospeso in attesa di conferme o smentite. Certamente la buona fede rassicurata dalla buona conoscenza nel campo della medicina preventiva ci darà una risposta seria e motivata, priva di quei contenuti emozionali che potrebbero "farci buttare via l'acqua sporca col bambino dentro", ovvero privarci di una modalità di prevenzione, la vaccinazione, che ha dato indubbiamente i suoi frutti ed ha contribuito a farci invecchiare.
Da neurogeriatra, ricordo che più di un decennio fa il tentativo di utilizzare un vaccino che contrastasse l'azione nel cervello umano della beta-amiloide-42, una delle sostanze che provoca i danni neuronali della malattia di Alzheimer, non ha dato alcun risultato positivo, provocando invece alcuni casi di encefalite tra le persone che si erano sottoposte a questo trattamento sperimentale. Tuttavia, si sta lavorando ancora nel campo immunologico su questa terribile malattia, con qualche incerta speranza nel deserto della pochezza delle risorse farmacologiche utili ed efficaci nel combatterla.

Lei afferma che un farmaco interagisce con l'organismo, con altri farmaci e con il cibo. Ed aggiunge un'altra variabile fondamentale, il genere non intendendo il sesso –-maschio femmina- ma le differenze di ordine sessuale e anche genetiche e culturali che strutturano un'identità. Da queste considerazioni, quali sono le osservazioni e le conseguenze che ne trae?

morte per circolo viziosoangina pectorisIl genere, appunto, rappresenta quell'insieme di differenze sessuali, ma anche genetiche, comportamentali, culturali e sociali, che strutturano l'identità di ciascun individuo, influendo biologicamente sul modo in cui una malattia si sviluppa, viene diagnosticata e curata. Tuttavia, come scrive da anni Flavia Franconi, "Il corpo maschile ha sempre costituito, fin dall'antichità, la 'norma', quindi tutto quello che è stato fatto era destinato all'uomo". La medicina, infatti, è stata scritta da maschi per i maschi, andando incontro a volte ad errori diagnostici e terapeutici quando le conoscenze sono state applicate alle donne. Abbiamo preso i risultati ottenuti nell'uomo e li abbiamo acriticamente trasportati nella donna: questo è stato un grossolano errore metodologico.
La Medicina di genere da tre decenni tenta di combattere l'errata convinzione che vi sia una perfetta equivalenza uomo-donna, affrontando non tanto lo studio delle patologie che colpiscono prevalentemente gli uomini o le donne, ma quello delle patologie che colpiscono entrambi i generi, hanno storia clinica diversa e richiedono una risposta medica e organizzativa diversa. Questo approccio rappresenta una nuova dimensione della medicina, la quale comporta l'esigenza di contestare, anche, molti risultati degli studi scientifici al fine di riconoscere e valorizzare le differenze biologiche e cliniche per migliorare la salute delle donne, ma anche degli uomini.
Quali sono i punti rilevanti che segnano le differenze uomo-donna? Molti e tutti interessanti. Basterebbe riflettere su alcuni dati di cardiologia: quando nel 1768 William Heberden pubblicò il suo studio di 100 casi (di cui solo 3 donne...) sui sintomi dell'angina pectoris, riportò il "classico" dolore restrosternale, spesso irradiato al braccio sinistro. A livello clinico esiste invece una differenza sostanziale nei due sessi, in quanto nella donna il dolore da angina o da infarto cardiaco (IMA) si può frequentemente manifestare in maniera diversa. Uno studio ampio (WISE et al.) ha infatti confermato che nella donna i sintomi precoci sono prevalentemente atipici: il dolore è spesso irradiato alle spalle, al dorso e al collo, si associa a qualche difficoltà di respirazione, spesso a nausea persistente, vomito, sudorazione fredda, spossatezza. Sembrano quasi dei sintomi influenzali. Si tratta con chiara evidenza di manifestazioni "diverse" da quelle che generazioni di medici hanno imparato e praticato: tuttavia, dopo 250 anni, la definizione classica permane nei libri di testo e le conseguenze sono palpabili: in assenza di sintomi classici, infatti, la donna con un episodio ischemico cardiaco in atto, subisce un iter diagnostico e terapeutico diverso, che può comprendere delle false strade diagnostiche (accertamenti gastroenterici o comunque su patologie differenti da quella cardiaca) con conseguente perdita di tempo prezioso, magari attraverso un ricovero ma NON in terapia intensiva coronarica dove potrebbe essere sottoposta tempestivamente alle cure del caso, mediche invasive (applicazione di stent coronarici) o intervento cardiochirurgico.
donne e violenzaLimitando però la polemica (costruttiva!) ai soli farmaci, sento il dovere di criticare apertamente il principio che ha animato medici, ricercatori e industrie del farmaco fino a pochi anni fa: se un farmaco va bene ad un maschio, perché spendere soldi per provare che funziona anche nella donna? Da decenni, infatti, i farmaci vengono testati prevalentemente sugli animali di genere maschile perché meno variabili biologicamente. Successivamente la sperimentazione si sposta sugli esseri umani, ma... giovani adulti maschi, meno problematici e potenzialmente meno dispendiosi rispetto alle donne: si pensi sia alla ciclicità mestruale che alla possibilità di procreare figli malformati e delle conseguenze legali e dei risarcimenti connessi! Per effetto di ciò le donne sono meno rappresentate negli studi clinici malgrado rispetto ai maschi consumino più farmaci, rispondano ad essi in modo diverso e siano più frequentemente vittime di eventi avversi da farmaci. Se riflettiamo poi sul fatto che le donne vivono più a lungo degli uomini ma con un carico maggiore di fragilità, proprio questo rapporto complesso con i farmaci le rende spesso vittime di quello che chiamo il femminicidio da farmaci.
Sotto molti aspetti la Medicina di genere rappresenta il primo passo verso un augurabile traguardo, la medicina personalizzata, rivolta a quella persona che ha quella malattia, con quel contesto sociale e familiare che la rende unica.
Ma poiché le cose che non si sanno non esistono, il primo ostacolo per la diffusione della Medicina di genere è la non conoscenza! Ed è qui che dobbiamo impegnarci.

Dal quadro generale scendiamo a situazione specifiche che lei richiama. Ne scegliamo tre: le cadute, la malattia di Parkinson, le demenze, eventi e patologie frequenti nella popolazione anziana.Può sintetizzarci, per esperti e non esperti, quali sono le interazioni che si possono cogliere e le precauzioni?

La nostra medicina sempre più d'organo e tecnicizzata, trascura le cadute, ritenute eventi "non nobili" ma che nella quotidianità sono di estrema frequenza tra soggetti di età avanzata o comunque fragili. E' necessario parlarne per diversi motivi, enunciando intanto una prima verità: nessun farmaco può prevenire le cadute, mentre numerosi medicamenti possono causarle o aumentarne il rischio.
Le cadute rappresentano per l'anziano un momento clinico di estrema rilevanza in quanto fra le prime cause di grave disabilità, istituzionalizzazione in residenza per anziani e morte. Il Ministero della salute, a ragione, definisce la caduta come un "evento sentinella di fragilità". Le cadute aumentano progressivamente con l'invecchiamento della popolazione. Ogni anno, in Italia oltre 3000 persone muoiono tra le mura domestiche a causa di cadute e, secondo dati ISTAT e INAIL recenti, ogni 10 secondi nelle abitazioni si verifica un incidente che richiede un ricovero ospedaliero.
La vecchiaia non è diversa dall'infanzia fin quando si sta seduti scrive Malcolm Cowley in "The view from 80", sottolineando efficacemente le diversità biologiche tra adulto giovane e vecchio riguardo alle prestazioni di equilibrio, indubbiamente ridotte nell'anziano e tra le cause di cadute. Chi lavora nel campo della salute deve provare a prevenirle attraverso informazione e formazione sulle modalità pratiche da adottare a livello ambientale (banalmente, togliendo i tappeti di casa, fornendo una illuminazione adeguata, migliorando se possibile problemi di vista e di equilibrio, ecc.) e agendo sulle condizioni e malattie che provocano fragilità.

polipatologia e farmaciE' necessario ovviamente indagare sulla causa di una caduta e valutarne le conseguenze, sia dirette (traumi, sindrome da immobilizzazione, ecc.) che successive, come la temibile Fear of Falling Syndrome, che posso sintetizzare così: un anziano o un soggetto fragile che è stato protagonista di una o più cadute, "temendo" per successivi episodi, evita di camminare e, se lo fa, si muove per una distanza ridotta, con lentezza ed un esasperato atteggiamento di estrema cautela, ricercando ansiosamente punti sicuri di appoggio, aggrappandosi di continuo a supporti che possono salvaguardarlo, in definitiva autolimitando ulteriormente e in modo progressivo la propria autonomia.
La malattia di Parkinson e i parkinsonismi di varia natura, tra cui quello da farmaci (che peraltro non è l'unico evento motorio negativo che può essere provocato da vari farmaci!) e le demenze sono tra le altre cause più frequenti di cadute: tutte insieme, rappresenteranno buona parte delle condizioni che dovremo affrontare nell'immediato futuro che prevede un progressivo invecchiamento della popolazione.
A mio parere non sono malattie ben conosciute e non vengono affrontate con la dovuta attenzione, forse perché ne sono vittime prevalentemente gli anziani, sui quali la nostra società distratta e persino il mondo della medicina abusa di comode bugie dettate da idee e comportamenti di ageismo «è solo vecchio», di nichilismo «non c'è niente da fare» e infine di fatalismo «rassegniamoci, accettiamo lo stato delle cose».

Il filo conduttore della sua attività e del suo interesse sull'uso ed abuso di farmaci, ha due cardini d'appoggio. Il primo richiama il coinvolgimento di tutti i soggetti-sanitari (infermieri, riabilitatori, fisioterapisti, OSS, medici, specialisti ed altri) ma in particolare quelli di prossimità (familiari, caregiver, badanti, volontari); il secondo parte dal presupposto/necessità che il cittadino/paziente deve essere aiutato ad informarsi e a conoscere. Quale è la condizione che ha immaginato in cui i "non-medici" possono essere coinvolti?

pubblicit progressoAscolto per radio la pubblicità progresso che fa il nostro ministero della salute a proposito di bambini, adolescenti e farmaci: bambini e adolescenti non sono adulti in miniatura. Metà cucchiaio e passa tutto? Corretta e utile, è innegabile! Ma perché non regalare le stesse attenzioni e precauzioni per i vecchi, e soprattutto le vecchie? Dovremmo osservare che nascono più vecchi che bambini! Ma c'è una politica e una medicina disattenta al problema anziani, la neurologia non è una branca ben conosciuta forse perché sottostimata nella sua importanza, la gerontologia sta seguendo la stessa sorte, così almeno a me pare. E' possibile immaginare che in un momento come l'attuale di crisi economica possano ricadere sul nostro welfare ulteriori "assenze di impegno" che ricadranno certamente sui più deboli. Formando, informando, sostenendo una cultura medica sarà possibile che quella parte di medicina frettolosa e distratta possa essere aiutata, o persino controllata, dalle figure professionali dei "non medici" e persino dai pazienti e dai cittadini che abbiano voglia di mettersi in gioco e apprendere. L'ho chiamata da Tolomeo a Copernico questa rivoluzione che mette il cittadino o il paziente o il qualificato "non- medico" al centro del nostro sistema.
Il mio Malati per forza comincia con ... se ti udrà un medico di schiavi, ti rimprovererà: " ma così tu rendi medico il tuo paziente ! " Proprio così dovrà dirti, se sei un bravo medico! Così affermava Ippocrate ribadendo la necessità di un adeguato e costruttivo rapporto di informazione fra medico e paziente... e segnala nella parte conclusiva un editoriale del BMJ del 2013 dal titolo "Let the patient revolution begin" (Richards et al.) in cui si sostiene che l'unica possibilità per migliorare l'assistenza sanitaria è rappresentata da una piena collaborazione tra medici e pazienti, perché questi ultimi, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l'impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita, e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli.
Esiste dunque una relazione che attraversa questo testo dalle prime alle ultime pagine del testo, un legame che, in definitiva, prospetta una maggiore partecipazione e responsabilizzazione nei temi della salute del medico, dei professionisti non-medici fino al paziente ed al cittadino, confermando la necessità e l'impegno a cambiare in meglio l'attuale medicina della fretta.
malati per forza

Ho immaginato questa storia, anzi... è un fatto realmente accaduto, di cui non le rivelo il finale! Una anziana signora si presenta lenta e irrigidita nei movimenti al banco del farmacista (o in ospedale per sottoporsi ad un prelievo, o da un fisioterapista, logoterapista, ecc.) con una ricetta medica in cui c'è scritto Plasil o altri medicamenti implicati nel parkinsonismo da farmaci. Il professionista sa che fino ad un mese prima la signora si muoveva normalmente. Certamente, se la ricetta è bianca, libero-professionale, è possibile che a sbagliare sia stata la paziente, che ha assunto per una maggiore durata quel farmaco rispetto alla prescrizione del medico, mentre se la ricetta è mutualistica, è stata rinnovata probabilmente dal medico disattento.
Cosa può fare il "non-medico" che ha compreso il possibile nesso causale tra farmaco e i nuovi sintomi? In ogni caso, come si dovrà comportare eticamente?


La domanda finale ha sempre un carattere più personale. Il suo percorso professionale parte dall'attività di neurologo in ambito ospedaliero, poi un avvicinamento al mondo complesso, anche per la salute, degli anziani sino all'impegno costante con le associazioni di volontari a sostegno dei malati d'Alzheimer e dei loro familiari. Ora si batte per una medicina diversa. I farmaci che ruolo hanno giocato?
Ma soprattutto cosa è un farmaco e perché esercita sempre, dal tempo di sciamani e guaritori, un potere sulle persone e sulle comunità?

Da neurologo mi sono sempre occupato spesso di anziani e sono stato colpito sin dall'inizio del mio lavoro in ospedale dalla fantastica possibilità di vedere "guarire" una persona da una malattia apparentemente grave e progressiva come nel caso del parkinsonismo da farmaci e di altre manifestazioni. Non dico che sia diventata un'ossessione, ma è comunque una mia prassi consolidata e prioritaria porre una serie di domande allo scopo di escludere, o meno, che una determinata sintomatologia clinica possa essere in rapporto con l'assunzione di un farmaco.
Purtroppo, con l'arrivo dei cosiddetti manager, ma non solo, il lavoro in reparto è cambiato: non più scambi di idee a letto del malato tra medici, infermieri, fisioterapisti, studenti, specializzandi, ma visite veloci solitarie e discontinue negli schemi mensili. Poi, sempre meno letti e meno degenti, e questo poteva andare bene per vari motivi, ma anche minore centralità del ricoverato rispetto alle attività ambulatoriali e di urgenza e persino a quelle burocratiche. E velocità, che mal si sposa con la relazione medico-paziente, con la comunicazione informata, col benessere che può derivare dall'effetto placebo che una rapporto regala!
A soli 54 anni sono andato in pensione, ma per modo di dire. Nessun manager ha cercato di acquistarmi, mi sono detto, e questo è accaduto anche ad altri miei colleghi che stimo. Ma che manager sono questi che si lasciano scappare dei medici pignoli e buoni lavoratori nel momento della loro piena maturità senza batter ciglio?
Fuori, ho ampliato lo sguardo, ho cominciato a frequentare i geriatri ed ho imparato molte cose, a capire cosa vuol dire prendersi cura, rassicurare, guardare con maggiore attenzione che in passato anche il contesto che circonda una persona malata. E poi, il mondo della fragilità degli anziani, e soprattutto quello delle demenze, ha necessità di occhi attenti e partecipi, di attenzione, di comunicazione, di formazione, piuttosto che di farmaci a volte inutili o controproducenti. Primo: non nuocere!

Cosa è un farmaco? Questa domanda, poi, nella sua parte finale meriterebbe una risposta lunga e articolata, perché tocca un nodo affascinante della relazione medico-paziente. Partirei dal paleolitico, in cui era il gruppo sociale che si prendeva cura del malato (vi sono dei graffiti in Georgia e nel sud-Francia che lo dimostrano); poi è comparso lo sciamano, che aveva potere perché comunicava con gli spiriti ed era in grado di guarire anche perché quanto condivideva col paziente i valori culturali delle procedure adottate.
Lo sciamano aveva un'idea spirituale della malattia, mentre ai nostri giorni pochi medici comprendono che la persona è qualcosa di più del malato in quanto hanno, della malattia, una idea biologica. Ippocrate affermava che... sapere che tipo di persona ha quella determinata malattia conta più del sapere quale tipo di malattia abbia.
E invece, la relazione medico-paziente è andata incontro a crescenti difficoltà proprio da quando, paradossalmente, la medicina ha cominciato ad avere a disposizione terapie efficaci per le malattie. Da un medico che «sapeva un po' di tutto» alle specializzazioni che non comunicano e alla frammentazione del corpo del malato; si è ridotto il tempo di ascolto e del contatto col corpo anche a causa dell'uso prioritario di mezzi diagnostici che hanno soppiantato la semeiotica che aveva un valore comunicativo e di rassicurazione. Il medico "tocca poco" il paziente in quanto pensa di poter risolvere tutto con esami e terapie, creando i presupposti della medicina difensiva, che ruba risorse destinabili a migliori compiti.
L'assenza di empatia e di una buona comunicazione da parte del medico è peraltro fonte indiscussa di scarsa aderenza dei pazienti-cittadini ai consigli di stile di vita o farmacologici, con conseguente altro spreco di risorse. E' la relazione medico/paziente o medico/familiari che rende appropriata la prescrizione di una terapia farmacologica o non farmacologica!
Una medicina distante dalla gente, poco affabile ed affidabile, crea inoltre i presupposti dell'abusivismo medico e della ciarlataneria, del ricorso ai falsi profeti e ai guaritori, figure che hanno vittoria facile sulla credulità popolare indebolita dalla fragilità provocata dalla sofferenza. Proprio i ciarlatani, a differenza della scienza ufficiale, hanno "il merito" di occuparsi della persona e, guarda un po', in maniera involontaria ci indicano la via affidabile da seguire, la strada dell'empatia che una parte della classe medica (ma non solo) ha smarrito.
Scrive Dostoevskj ne I fratelli Karamazov: dal momento che l'uomo non è in grado di rimanere privo di miracoli, egli si crea da sé i miracoli nuovi, e si inginocchia dinanzi al miracolo del ciarlatano, alla magia della fattucchiera.
Consideriamo che il rapporto fra professionista della salute (medico e non) e paziente è un confronto impari fra uno che sa verso uno che non sa, uno che è forte verso uno che è debole. Una modalità antica, che nello stesso tempo dobbiamo ritenere innovativa, ci dice che questo rapporto deve basarsi invece sull'empatia (so che cosa avverti nell'animo), sulla informazione (hai il diritto di sapere), sulla comunicazione (devo essere in grado di sapertelo dire), e infine sulla professionalità (so che cosa fare a livello tecnico).
Su un muro interno del cinema d'essai Visionario di Udine in questi giorni è scritto con un gessetto una lunga frase di Don Luigi Ciotti, di cui riporto un frammento, che userei come conclusione:... responsabilità è impegno quotidiano, non indignazione saltuaria, non dolore a tragedia avvenuta...
Diamoci da fare per cambiare.

 

(L'articolo è illustrato con slide del dottor Fedinando Schiavo, NdR)

Aggiornata il 15 dicembre 2014

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